PROGETTO EFFE

Un  male che attraversa l'Italia

 

di Silvana Mossano

Casale Monferrato non è la città dell’amianto. Casale Monferrato è la città della lotta contro l’amianto, simbolo di una resilienza e di una battaglia ormai quarantennale che ha dato una scossa in tutta Italia e anche in diverse parti del mondo: dalla Francia, al Belgio, all’Inghilterra, alla Svizzera, al Brasile, agli Stati Uniti, al Canada, al Giappone, e altrove.

 

Epopea dell’amianto

Adesso, dici amianto e ti viene un brivido. Adesso, dici Eternit e storci il naso.

Ma non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui Casale Monferrato era la factory town della maggiore industria dell’amianto in Italia: l’Eternit.

Nel 1901, l’austriaco Ludwig Hatschek brevettò un materiale composto di cemento e amianto che chiamò «eternit», dal latino «aeternitas»: è l’amianto a conferirle a questo materiale le caratteristiche che lo rendono robusto, duttile, ignifugo, poco costoso, adatto per realizzare coperture di edifici e grandi tubazioni per acquedotti e reti fognarie.

Nel 1906, l’ingegnere italiano Adolfo Mazza acquistò il brevetto e, nel 1907, la società Eternit, di cui Mazza era azionista, aprì a Casale Monferrato il primo stabilimento per la produzione di manufatti d’amianto. Da quel momento il nome usato per indicare questo materiale sarà semplicemente «eternit»: tetti in eternit, tubazioni in eternit, ma anche camini in eternit, complementi d’arredo per esterni in eternit e così via.

Fu, all’inizio, una grande occasione di sviluppo: lo stabilimento offriva lavoro ben retribuito e sicuro, garantendo un certo benessere con la possibilità per chi vi lavorava di costruirsi una casa in proprietà, di far studiare i figli all’università e di affrancarsi da mansioni più pericolose (come il lavoro nelle miniere) o più incerte (come l’agricoltura).

Casale Monferrato diventò, appunto, una factory town, cioè la città che si identifica con la fabbrica, così come, ad esempio, Alessandria con la Borsalino, Torino con la Fiat, Ivrea con la Olivetti.

 

L’ampliamento

Negli anni Trenta, oltre al centro produttivo in via Oggero, nel quartiere Ronzone, furono realizzati i magazzini di stoccaggio in piazza d’Armi. Intanto, la società Eternit, che in tempi successivi passò in proprietà a francesi, belgi e svizzeri (nel 1952 la famiglia Mazza cedette le proprie quote), acquisì o aprì altri stabilimenti, tra cui a Cavagnolo (la Saca, in provincia di Torino), a Bagnoli (Napoli), a Siracusa, a Rubiera dell’Emilia, in Sardegna.

In Italia, c’erano anche altri produttori minori, concorrenti dell’Eternit. Tra gli altri, la Fibronit, con sede legale a Casale Monferrato e stabilimenti a Broni (Pavia) e Bari.

 

I dubbi sulla salute

Andava tutto bene?

Dalla metà degli anni Trenta, nel mondo medico furono descritti i primi casi di carcinoma maligno collegati all’inalazione di fibre di amianto e fu poi riconosciuta l’asbestosi come malattia dell’apparato respiratorio collegata alla prolungata esposizione. Nel 1943, la Germania riconobbe il cancro ai polmoni come conseguenza dell’esposizione all’amianto e provvide con risarcimenti ai lavoratori.

Nel 1964, all’Accademia delle Scienze di New York, lo scienziato Irving Selikoff e altri ricercatori confermarono pubblicamente il nesso causale tra amianto e mesotelioma; di più: evidenziarono che ad ammalarsi non erano soltanto i lavoratori che maneggiavano l’amianto, ma anche i cittadini entrati in contratto con la fibra inconsapevolmente, in circostanze semplicemente «ambientali» (cioè per la diffusione incontrollata della polvere anche fuori dagli stabilimenti). Nel 1988 morì, a Casale, Piercarlo Busto, giovane bancario poco più che trentenne, salutista e atleta, appassionato di corsa, che si allenava spesso alla pista ciclabile del Ronzone, poco distante dall’Eternit. Sul manifesto funebre, sotto il nome, i suoi famigliari fecero scrivere «morto a causa del mesotelioma».

Selikoff all’epoca fu fortemente osteggiato, nei suoi confronti vennero promosse campagne denigratorie. Contemporaneamente i «cartelli» europeo e mondiale degli industriali che possedevano cave di estrazione di amianto (in Italia, a Balangero, la più grande d’Europa) e stabilimenti produttivi di manufatti che impiegavano amianto organizzarono una massiccia propaganda per celare o minimizzare i reali pericoli causati dalla fibra.

 

La famiglia Schmidheiny

Negli anni Settanta, a capo dell’Eternit, in vari Paesi, c’era la famiglia svizzera Schmideiny, molto attiva anche nel settore del cemento. A un certo punto, il capostipite Max assegnò, in eredità, al figlio Thomas il settore del cemento e al figlio Stephan quello dell’amianto. Dal 1976, ad assumere le redini di Eternit, anche in Italia, fu dunque Stephan Schmidheiny. Il centro di potere era in Svizzera, a Niederurnen.

Lo stabilimento di Casale, sotto la sua gestione, rimase in attività dieci anni, fino al 1986. A giugno di quell’anno, Eternit Italia fu dichiarata fallita: la stessa società, che non aveva più interesse a proseguire l’attività nella fabbrica ormai vecchia di 80 anni e obsoleta, consegnò i libri contabili in tribunale.

 

I primi processi

Prima della chiusura, c’erano stati dei processi, promossi dai lavoratori, assistiti dai legali nominati dalla Camera del lavoro, davanti al pretore di Casale: non cause legali direttamente contro l’Eternit, ma nei confronti dell’Inail. Quei procedimenti furono occasione per far emergere - con perizie documentate e tutt’ora di indiscussa validità (in particolare quella del docente universitario Michele Salvini) - che nello stabilimento del Ronzone la quantità di polvere d’amianto era presente e fuori controllo, anche se si era cercato di convincere l’Inail che era sparita.

Intanto, si cominciarono a contare i morti d’amianto attribuendoli all’inalazione della fibra che provoca il cancro maligno chiamato «mesotelioma».

All’inizio degli anni Novanta, fu celebrato in tribunale a Casale un processo per omicidio colposo, in cui furono imputati alcuni dirigenti dell’Eternit. Il percorso fu lungo e, all’arrivo in Cassazione, la prescrizione aveva già maturato l’intero tempo a disposizione: soltanto il caso di una vittima fu salvato, tutti gli altri spazzati via.

 

Disastro doloso

Dopo il 2005, la procura della Repubblica di Torino aprì un fascicolo ipotizzando il reato di disastro doloso causato dalla diffusione incontrollata di fibre di amianto e dalla mancata adozione di strumenti di protezione finalizzati a contenere la contaminazione.

Nel 2009, il pool composto dai pm Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli chiese il rinvio a giudizio del conte belga Louis de Cartier de Marchienne e dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny: gli ultimi due patron di Eternit all’epoca ancora in vita. Furono mandati a processo, il cosiddetto «maxiprocesso Eternit»: nel giorno di apertura, il 10 dicembre 2009, davanti al tribunale di Torino c’erano centinaia di casalesi e non solo. Tutti i sindaci del Monferrato indossavano la fascia istituzionale, la gente portava sulle spalle una bandiera tricolore attraversata dalla scritta «Eternit Giustizia»: diventò la divisa simbolo di questa battaglia civile. In prima fila, l’Afeva (Associazione famigliari e vittime dell’amianto), presieduta da Romana Blasotti Pavesi: vedova dell’amianto (il marito era operaio all’Eternit), madre che ha perso la figlia poco più che cinquantenne (che mai lavorò all’Eternit), oltre a una sorella e alcuni nipoti. Centinaia di famigliari delle vittime, oltre che istituzioni e associazioni, si costituirono parte civile.

 

L’ordinanza storica

L’ex sindaco Riccardo Coppo definì questo disastro uno «stillicidio» che causa, ormai, ogni anno, e da anni, una cinquantina di nuovi malati nel territorio casalese. Coppo ebbe un ruolo fondamentale e di portata storica: nel 1987, dopo il fallimento, una società francese si fece avanti per riaprire l’Eternit, impegnandosi ad assorbire una parte degli operai rimasti senza lavoro, ma imponendo la ripresa della produzione di manufatti di amianto. Il tentativo fu impedito con un atto amministrativo eccezionale: Coppo firmò un’ordinanza che vietava totalmente l’uso della fibra a Casale, cinque anni prima che fosse messa definitivamente al bando in Italia con la legge del 1992.

 

Le bonifiche

Purtroppo, anche se la produzione cessò nel 1986, lo stabilimento del Ronzone fu abbandonato così com’era, senza precauzioni e senza bonifiche: una bomba a rilascio lento. La complessa opera di sanificazione fu realizzata, anni dopo, a spese della collettività (Stato, Regione e Comune).

Interventi di bonifica sono stati eseguiti anche in vari edifici civili, sanitari, scolastici, capannoni: oggi Casale è di sicuro la città più bonificata al mondo, anche se, in ambito privato, non tutto è stato fatto. Certo, ci sono meno coperture di eternit rispetto a quelle che si vedono in altre parti d’Italia, ma qui sono stati frequenti i cosiddetti «usi impropri», cioè l’impiego di rottami di manufatti e, soprattutto, del cosiddetto «polverino», il più temibile: era un prodotto di scarto della lavorazione, derivante dalla tornitura a secco delle estremità dei tubi. Poiché per realizzare i tubi veniva impiegata la varietà di amianto «crocidolite» o «amianto blu», che è il più pericoloso e terribile, esso era presente appunto negli sfridi della tornitura. Il polverino veniva regalato o acquistato a basso costo direttamente all’Eternit e utilizzato per coibentare i sottotetti, o per livellare stradine, sagrati delle chiese, cortili, campetti di calcio e di bocce. Sotto quei tetti sono vissute famiglie, su quei cortili i bambini giocavano grattando la superficie per far scorrere meglio le biglie, i campetti di calcio erano spesso quelli degli oratori, i campi di bocce quelli dei circoli ricreativi. E poi c’erano le fibre incontrollate che giravano nell’aria della città, provenienti dalla fabbrica, o dai trasporti di materie prime e di manufatti su camion che, senza coperture, percorrevano le strade della città, o dalla frantumazione a cielo aperto di lastre e tubi difettosi da reimmettere in parte nella produzione, o dall’abbandono degli scarti in discarica accanto al Po…

Lo stabilimento è stato definitivamente bonificato a metà degli anni Novanta, abbattuto e in gran parte sepolto nel sottosuolo. Sopra questo sarcofago sigillato è stato realizzato il Parco Eternot (significa: No Eternit), inaugurato il 10 settembre 2016 con la partecipazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

 

Il maxiprocesso

Il «maxiprocesso Eternit», aperto nel 2009 dopo le indagini del pool della procura torinese, si concluse il 13 febbraio 2012: gli imputati de Cartier e Schmidheiny furono condannati dal tribunale presieduto da Giuseppe Casalbore a 16 anni di reclusione ciascuno per disastro ambientale e al pagamento di numerose provvisionali risarcitorie.

L’anno successivo, sempre a Torino, si svolse il secondo grado di giudizio: la Corte d’Appello, presieduta da Alberto Oggé, condannò il solo imputato svizzero a 18 anni. Nel frattempo, il barone belga, molto anziano, era deceduto.

Il 19 novembre 2014, la Corte di Cassazione, pur riconoscendo che il disastro provocato dall’amianto c’è stato, applicò la prescrizione, dichiarando estinto il reato.

Di fatto, la lunga latenza del mesotelioma (anche di 20, 30, 40 anni) finisce per essere «complice» di chi, diffondendo la fibra, l’ha provocato: infatti, la malattia si manifesta molti anni dopo, quando, appunto, ormai, è trascorso troppo tempo e scatta la prescrizione.

 

Omicidio doloso «spacchettato»

Nel 2015, prese il via un nuovo procedimento giudiziario, il cosiddetto «Eternit Bis». Unico imputato: Stephan Schmidheiny. Il reato contestato: omicidio doloso (cioè volontario) di alcune centinaia di persone morte a causa del mesotelioma dovuto all’amianto.

Dopo una serie di passaggi, il fascicolo iniziale fu «spacchettato» in filoni diversi: a Torino è rimasto quello per la morte di due persone a Cavagnolo (dove c’era lo stabilimento Saca) e il reato è stato riqualificato nel meno grave omicidio colposo. A Napoli, è finito il troncone per 8 morti di Bagnoli (la procura partenopea qui ha insistito con l’incriminazione di omicidio volontario, il processo in Assise è in dirittura d’arrivo). Anche i pm di Vercelli, cui è arrivato il filone più consistente, per 392 morti di Casale e dintorni, hanno ribadito l’ipotesi di omicidio volontario: Schmidheiny è stato, poi, rinviato a giudizio e l’Assise geograficamente competente a processarlo è quella di Novara.

 

Il «filone» casalese

A Novara, appunto, davanti alla Corte presieduta da Gianfranco Pezone, affiancato dal giudice togato Manuela Massino più i 6 popolari, è in corso il processo. L’accusa è sostenuta dai pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare. I difensori dell’imputato sono quelli storici: Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva.

Il numero delle vittime elencate nel capo di imputazione non comprende tutti coloro che sono morti d’amianto nello sventurato territorio casalese, ma ne è rappresentata soltanto una parte.

Secondo la tesi dell’accusa (e anche delle parti civili), l’imprenditore svizzero era consapevole della cancerogenicità dell’amianto e, attraverso la rete di stretti collaboratori, scienziati e dirigenti, attuò una propaganda mistificatrice per nascondere i reali pericoli causati dalla fibra. Da qui il dolo contestato all’imputato.

Secondo la difesa, invece, all’epoca le conoscenze scientifiche non erano così certe; di più: i legali, con i loro consulenti, mirano a sgretolare le certezze sulle singole diagnosi. Le cartelle cliniche vengono esaminate a una a una, si mettono in dubbio alcuni accertamenti diagnostici non recenti e si prova a insinuare che il momento di inalazione della fibra è precedente al cosiddetto «periodo di garanzia» dell’imputato, corrispondente al decennio tra il 1976 e il 1986, quando Schmidheiny era l’effettivo gestore dell’Eternit.

E nel frattempo?

Il disastro continua.

 

Serve con urgenza una terapia

Si studia per trovare una cura: è la priorità assoluta.

Nel 2014, fu attivata l’Unità mesotelioma (Ufim), poi divenuta «Struttura Semplice dipartimentale mesotelioma», diretta dall’oncologa Federica Grosso, a scavalco degli ospedali di Casale Monferrato e di Alessandria. È collegata con istituti di ricerca in Italia e nel mondo, è parte della rete di riferimento europeo per i mesoteliomi, e adotta, oltre alle cure tradizionali, anche le più innovative cure sperimentali, grazie alla partecipazione diretta agli studi clinici.

Chi sente un dolorino alla schiena, chi dà due colpetti di tosse, chi avverte un respiro un poco affannoso non se la conta e non se la canta: intuisce e teme. E chi, alla fine degli accertamenti, riceve una diagnosi di mesotelioma ha un solo desiderio e una sola richiesta: una terapia efficace per guarire, per vivere.

È quella che si sta cercando. È quella che va individuata al più presto. Quando la si sarà trovata, verrà scritta la più bella pagina di giustizia: non soltanto per i malati di mesotelioma di Casale, ma di tutto il mondo (tanto più che, in alcuni Paesi, l’amianto non è ancora stato bandito).

Eternit Bis a Novara,

udienza del 28 marzo 2022

 

 

Siamo Grati a Silvana Mossano per averci inviato il reportage dell’udienza del 28 marzo scorso del processo Eternit Bis, che si svolge in Corte d’Assise a Novara. È il seguito dell’articolo che abbiamo pubblicato su Pagine Azzurre che amplia le conoscenze dei nostri lettori attraverso le testimonianze di una novantina di famigliari delle 392 vittime dell’amianto.

 

Clicca qui per andare al sito con il reportage

dell’udienza del 28 marzo 2022 a Novara.

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