PROGETTO EFFE
Intervista a Paolo Bellotti
Una scelta professionale maturata
nell’incontro con don Angelo
Marco Caramagna
Paolo Bellotti è nato ad Alessandria nel 1960, ha iniziato la propria carriera professionale fondando una cooperativa sociale e lavorando in una comunità per minori convenzionata con il Tribunale dei Minori di Torino. Assunto nel 1992 al Ministero di Giustizia come educatore professionale si occupò di minori in stato di devianza presso l’Istituto Penale Minorile di Genova. Dal 1995 è funzionario giuridico pedagogico presso l’Istituto Penale di Alessandria svolgendo il ruolo di capo area educativo. Dal 2003 al 2008 ha presieduto il Consorzio dei Servizi Sociali dell’alessandrino. Dall’autunno 2017 al 2018 è educatore presso la Casa Circondariale di Alghero. Attualmente è funzionario direttivo presso i servizi sociali del Comune di Alghero.
Quello di Paolo Bellotti è un percorso professionale dentro l’istituzione carceraria ma quanto ha contribuito, inizialmente, la conoscenza di don Angelo Campora?
La mia storia con Don Angelo ha inizio in una parrocchia posta ai margini della città, in un quartiere, quello della Pista, storicamente abitato da famiglie alessandrine sufficientemente benestanti. Agli inizi degli anni 60 il quartiere subisce una profonda trasformazione. Ai suoi margini, in zone non ancora del tutto urbanizzate, vengono costruiti diversi caseggiati adibiti a case popolari. Il quartiere si amplia a dismisura con l'insediamento di diverse famiglie sopratutto di origine meridionale, molte delle quali con scarse risorse economiche a disposizione. In uno di quei caseggiati, più specificatamente quello di via Parnisetti, ci sono nato io. Il quartiere, come spesso succedeva in quegli anni, offriva ben poco. Le strade erano ancora da asfaltare e i servizi praticamente inesistenti. I condomini che ne delimitavano la zona popolare presentavano le problematiche tipiche dell'abbandono sociale. Molti dei ragazzi che ci sono nati ( miei amici e compagni di scuola) hanno avuto in seguito a che fare con la tossicodipendenza, alcuni hanno conosciuto il carcere, altri purtroppo sono morti di overdose o di AIDS. In quel contesto la parrocchia rappresentava l’unico vero posto di aggregazione giovanile fuori dalle logiche disgreganti, e don Angelo ne era l’anima. Compito non facile il suo. Come vice parroco aveva il difficile impegno di far convivere nello stesso ambiente i figli della “zona bene” di antico insediamento, con noi, quelli “delle case popolari”, ragazzi decisamente più problematici. Lui non fece mai distinzione alcuna. Più di una volta dovette subire i rimproveri dei suoi superiori per la condotta facinorosa e poco incline alle regole che noi ragazzi di quartiere spesso manifestavamo. Alcuni parrocchiani arrivarono anche a chiedere il nostro allontanamento. Inutile dire che Don Angelo ci difese ad oltranza cercando di valorizzare il più possibile le nostre potenzialità. Don Angelo aveva questo di straordinario: riusciva a “tirare fuori” il meglio da ogni persona che incontrava sulla sua strada. Così, poco alla volta, l'austera Parrocchia Madonna del Suffragio divenne il nostro punto di aggregazione e il suo viceparroco, don Angelo Campora, divenne, per un'intera generazione di adolescenti semplicemente “il Don”. In quell'ambiente sperimentai i primi rudimenti dello stare insieme, della necessità di condividere con i propri compagni momenti di divertimento e di riflessione. Erano anni nei quali si viveva con forte intensità il post concilio: Padre Pellegrino, Arcivescovo di Torino aveva emanato la lettera pastorale “Camminare insieme”, Monsignor Bettazzi, Vescovo di Ivrea aveva scritto una lettera aperta a Enrico Berlinguer, l'allora segretario nazionale del PCI, e i Vescovi italiani avevano dato alle stampe gli atti del convegno “Evangelizzazione e promozione umana” con il quale veniva formalmente riconosciuta l’opera essenziale dei laici all’interno del mondo cattolico mentre, don Luigi Di Liegro, a Roma poneva le basi per fondare e rinnovare “la Caritas” superando logiche meramente assistenzialistiche che fino ad allora la aveva caratterizzata. Don Angelo viveva e condivideva con noi quei passaggi storici con l'entusiasmo di chi credeva che la Chiesa, nell’opera di attenzione verso gli ultimi, avesse finalmente ritrovato la sua antica missione. Il resto è quasi venuto da sé. Svolgere attività di volontariato nel carcere minorile di Bosco Marengo, occuparsi di minori in stato di abbandono, costituire una delle prime cooperative sociali, impegnarsi in politica nel settore dei servizi sociali, per poi lavorare come educatore in un carcere, è stato come percorrere un’unica strada che ha avuto il suo inizio in una parrocchia di un quartiere di periferia. Anche quando ho assunto incarichi politici (non senza oggettive contraddizioni) in un partito laico, come lo era il PCI degli anni 80, i valori di tolleranza e di solidarietà acquisiti in gioventù rimasero i miei riferimenti ideali. Così, per rispondere alla tua domanda, devo dirti che la mia scelta professionale di lavorare come educatore in un carcere ha rappresentato una conseguenza logica di una scelta di vita nata in gioventù e via via maturata con nuove convinzioni di carattere sociale e politico. Senza mai dimenticare che con Don Angelo, insieme a molti dei ragazzi del quartiere, abbiamo mosso i nostri primi passi verso il futuro e seppur molto laicamente, ho la sensazione che in realtà “il Don” ci stia ancora accompagnando.
Quali sono state le difficoltà incontrate nel percorso de “Il Gabbiano”, prima e dopo la scomparsa di don Angelo?
Partiamo dalle difficoltà del “prima”. La costituzione del “Gabbiano” è stata un’esperienza esaltante, ricca di intuizioni e voglia di fare, ma certo le difficoltà non sono mancate. Pur avendo avviato una significativa collaborazione con l’USSL 70, il mondo degli operatori sociali dell’Ente Pubblico tendeva a non prenderci seriamente in considerazione. La nostra vera “colpa” era quella di essere giunti a costituire una cooperativa sociale partendo dal mondo del volontariato e non da quello più prettamente professionale e scolastico, meglio considerato dai servizi sociali dell’Ente Pubblico. All’inizio non fu facile “accreditarsi” con il mondo della scuola, delle realtà sociali cittadine e di quartiere. Negli anni futuri molti operatori della cooperativa diventeranno stimati avvocati del diritto minorile, educatori professionali, psicologi, assistenti sociali ecc, ma all’inizio eravamo considerati come dei giovani illusi, pieni di passioni ma con scarsa professionalità e competenza. Ci volle tempo e pazienza, ma alla fine, grazie anche alla stima che Don Angelo riscuoteva nell’opinione pubblica e alle iniziative concrete realizzate negli anni (case famiglie, laboratori di quartiere, doposcuola, centri estivi ecc) qualcosa cambiò. Molti operatori sociali e insegnanti che all’inizio ci guardavano con sospetto e sufficienza, col tempo iniziarono ad apprezzare il nostro operato, alcuni di loro arrivarono anche a frequentare le nostre comunità e a svolgere con noi opera di volontariato. Altri invece mantennero nei nostri riguardi un’acredine e un atteggiamento di supponenza mai abbandonato. Negli anni successivi la cooperativa “Il Gabbiano” riuscì a farsi riconoscere come un vero e proprio interlocutore credibile sui temi della devianza e delle politiche sociali, arrivando a dare vita alla prima rivista di cultura sociale della città “Pagine Azzurre”. Ma all’inizio fu davvero dura.
E le difficoltà incontrate con la scomparsa di Don Angelo?
Enormi. La notizia della sua scomparsa ci sconvolse al punto tale che ci volle molto tempo per poterla rielaborare, e non ne fummo all’altezza. Prevalse la logica di chiudersi a riccio, incapaci di promuovere innovazioni che lui stesso probabilmente ci avrebbe chiesto di attuare. In quegli anni le esperienze forti delle comunità di vita (le prime case-famiglie) e delle molte altre attività del Gabbiano vennero fagocitate da parte dell’Ente pubblico in una logica di potere alla quale noi non sapemmo opporci. La comunità “Borsalino” principale e innovativa attività della Cooperativa, venne messa a gara con regole di mercato che di fatto escludevano i valori che la cooperativa cercava di portare avanti. Naturalmente perdemmo l’appalto e successivamente altri servizi che avevamo avviato in collaborazione con l’Ente Pubblico.
La sensazione forte in quegli anni era che la politica (con la P minuscola), aveva capito che la cooperazione poteva rappresentare un business economico e di consenso elettorale. Ci aveva quindi messo le mani sopra, e noi, rinchiusi nel nostro dolore per la perdita di Don Angelo, non sapemmo opporci. Così negli anni la Cooperativa per poter sopravvivere, pur mantenendo forti alcuni riferimenti ideali, ha dovuto adeguarsi a logiche imprenditoriali. Oggi molti soci e dipendenti della cooperativa del “Il Gabbiano”, probabilmente neanche sanno chi era stato Don Angelo, dei suoi valori ideali che ne hanno permesso la nascita e con quale fatica è riuscita a muovere i suoi primi passi. Per questo motivo, per non disperderne la memoria, è nata la nostra associazione.
Oggi, quali sono le differenze educative con l’esperienza del passato all’interno delle carceri?
È una fotografia con chiari e scuri. Da una parte è innegabile che sia cresciuta una consapevolezza e una attenzione al mondo penitenziario prima inimmaginabile. È evidente che è maturata una maggiore consapevolezza dei diritti della popolazione detenuta e le normative in proposito, seppur molte volte disattese, certo non mancano. La Corte Costituzionale, i vertici apicali del ministero di giustizia e molti dei decisori politici, hanno ben chiaro che uno dei fondamenti della nostra convivenza è rappresentato dall’art 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quindi il problema non è culturale, ma è dettato dall’incapacità di intervenire con azioni concrete. Come non ricordare che l’Italia ha subito una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per trattamento inumano e degradante per come gestisce le proprie strutture penitenziarie? Eppure qualcosa di significativo in questi anni si è mosso. In molti istituti penali sono state avviate diverse attività lavorative anche esterne alle mura penitenziarie. L’inserimento lavorativo, grazie alla cooperazione sociale, è presente in quasi tutte le realtà penitenziarie italiane. In molti Istituti penitenziari sono stati avviati molteplici percorsi scolastici: tanta è diffusa l’istruzione scolastica, anche di alto livello, che il raggiungimento di una laurea da parte di un detenuto non fa più notizia. Inoltre il mondo del volontariato in questi anni è riuscito a trovare un proprio spazio di attività all’interno dei carceri, offrendo ai detenuti occasioni importanti di confronto, di crescita e di scambio di valori. Dall’altra parte però vediamo un degrado umano e strutturale sempre più accentuato. Molti edifici penitenziari sono in uno stato di vero e proprio abbandono. Si paga la logica predominante degli anni 70, quando, per ragioni economiche furono chiuse le strutture penitenziarie collocate all’interno del concentrico urbano per costruirne di nuove, ponendole nelle aree esterne e isolate dal contesto cittadino, come a dire che il problema non doveva riguardare la città e la sua collettività. Quando un penitenziario, così come ogni altra struttura restrittiva, tende ad isolarsi, i rischi di un suo degrado umano e sociale sono enormi. Le notizie di pestaggi e malversazioni che ci giungono da alcuni carceri italiani potrebbero rappresentare solo la punta di un iceberg molto più profondo di quanto si possa immaginare. Svolgere attività educative, nel quadro che ho appena delineato, offre molte più opportunità di ieri, ma bisogna sempre porre attenzione affinché logiche autoritarie non prendano inaspettatamente il sopravvento.
Il libro “Visti da dentro”, scritto nel 2015 e che raccoglie quattro storie di “ristretti” all’interno del carcere, avrà un seguito?
Negli anni mi ero sempre più disaffezionato al mio lavoro di educatore penitenziario. Il modello culturale che via via si è andato ad affermare in vasti settori della pubblica amministrazione è sempre più diventato quello dell’adempimento burocratico e del mero rispetto delle procedure. Oggigiorno, gli insegnanti nelle scuole, i medici di famiglia, i diversi operatori sociali, e quindi anche gli operatori penitenziari, vengono sempre più spesso chiamati a svolgere attività formali e a rendere conto del proprio operato attraverso complicate procedure amministrative. Sempre meno si è chiamati ad interagire con le persone che si hanno di fronte, a dare significato alle relazioni che si instaurano, a ricercare la comprensione dei bisogni di chi chiede sostegno. È proprio l’attuale modello economico e culturale, quello definito della post -modernità, che ha imposto questo nuovo approccio relazionale. Il risultato è un decadimento delle relazioni sociali e umane che Bauman, insigne sociologo polacco, ha ben descritto con la sua teoria della “società liquida”. Il carcere può ben rappresentarne il suo emblema e io non ne potevo più di un lavoro che, anno dopo anno, diventava sempre più burocratico e sempre meno umano. Ho alternato fin da giovane l’attività politica con il lavoro di educatore, ma la politica per me ha rappresentato una passione, l’educatore invece mi identificava come persona. Eppure c’è stato un momento che ho detto basta. Nella mia esperienza professionale ho visto gestire un carcere come si gestirebbe qualsiasi magazzino, uomini o cose non facevano più alcuna differenza. Avevo necessità di un “ritorno alle origini”. Scrivere le storie delle persone con le quali mi sono confrontato durante la loro detenzione, recuperare le loro narrazioni di vita per restituirne dignità, riemergermi nei loro drammi, è stato per me un toccasana necessario per poter andare avanti in un ambiente, quello carcerario, che sentivo giorno dopo giorno sempre più degradante. Così a volte, mi viene da dire che forse “Visti da dentro” l’ho scritto più per me che per i miei lettori. Ho ancora nel cassetto decine e decine di storie raccolte nei molti anni di esperienza. Ogni storia rappresenta un mondo e non vedo l’ora di poterle farle uscire per poterle farle conoscere, ma ho bisogno di tempo e spazi per poterle valorizzare al meglio, e forse non è ancora giunto il momento.
Associazione
Don Angelo Campora Odv
Via Convento, 11
Capriata d’Orba (AL)
Carlo Campora
Cell. 333.4759772
Bruna Bruni
Cell. 348.4778291
“L’Associazione é fondata sul volontariato,
che si avvale in modo determinante e
prevalente di prestazioni volontarie,
personali, spontanee e gratuite di soci e simpatizzanti senza fini di lucro.”
Obblighi informativi per le erogazioni pubbliche:
scarica allegato 2023>
Supplemento a "Pagine Azzurre" - Direttore Responsabile Marco Caramagna - Aut. Trib. Alessandria n. 30 del 18/11/2014